Ciarlatani e pseudoscienze sono tornati sui giornali per alcuni fatti di cronaca strillati dai giornali a inizio settembre: “Rifiuta la chemio e muore. Si curava con il metodo di Hamer”; “Muore di cancro: si curava con i clisteri di caffé”; “Giovane madre muore dopo il rifiuto della chemioterapia. Aveva deciso di curarsi con impacchi di ricotta e decotti di ortica.”
Come di consueto si sono scatenati gli opinionisti, soprattutto sui social, generalmente senza che sentire il bisogno di verificare come sono andati i fatti, perché tanto abbiamo tutti il diritto – tecnologicamente acquisito, per di più – di esprimerci su qualsiasi argomento: dacci oggi la nostra indignazione quotidiana.
E le proposte per contrastare la diffusione di false convinzioni ed evitare altre morti? La risposta degli esperti: un bel sito anti-bufale!
Già perché, è noto, la soluzione per evitare che le persone facciano scelte sbagliate, sono i fatti! Per indirizzare le scelte – promuovere cure efficaci e stili di vita salutari – basta contrastare l’ignoranza, diradare le ombre della disinformazione con la luce della scienza, la fiaccola che gli esperti, i sacerdoti della scienza, possono portare anche attraverso gli oscuri meandri di internet.
Libera scelta, responsabilità, giusto e sbagliato: ma di cosa stiamo parlando?
Se avvertite un certo tono sarcastico nelle mie parole, avete ragione: forse sono un po’ indignata pure io, ma più che indignata mi sento demoralizzata dall’eterno ritorno delle stesse dinamiche.
Uno dei motivi per cui sto scrivendo sempre meno è proprio questo senso di inutilità, l’inutilità di continuare a gettare parole nel mare di internet.
Ma ci provo lo stesso: non a proporre soluzione, più che altro a condividere i miei interrogativi e le mie letture.
Il fact-checking non serve
I siti antibufale non servono a niente: smettiamo di spenderci soldi e tempo. E ce lo dice proprio la scienza, se può aiutare a convincerci: confirmation bias, echo chambers e compagnia bella. Ho già scritto altrove degli studi del team di ricerca dell’IMT di Lucca, diretto da Walter Quattrociocchi. Cito da LeScienze:
…gli utenti tendono a selezionare e condividere i contenuti relativi a uno specifico genere di notizia, secondo uno schema che ricalca il cosiddetto pregiudizio della conferma (confirmation bias): la ricerca esclusiva di ciò che conferma un’idea di cui si è già convinti. Si creano così gruppi solidali su specifici temi e narrazioni che tendono a rafforzarsi e a ignorare tutto il resto: le discussioni spesso degenerano in litigi tra estremisti dell’una o dell’altra visione, con un’ulteriore rafforzamento della polarizzazione.
Possono servire le narrazioni?
Non voglio proporre la medicina narrativa come rimedio a tutti i mali dell’umanità. Io per prima ho i miei dubbi sull’enfasi e l’entusiasmo che da molte parti sta emergendo rispetto a questo approccio. Anzi, confesso che un po’ mi spaventa.
Ritengo che andrebbe presa in considerazione una maggiore attenzione ai meccanismi della comunicazione, della relazione e anche delle narrazioni ma soprattutto alla dimensione dell’ascolto.
Politiche sanitarie e strategie di comunicazione
Pochi giorni fa è stato pubblicato un documento commissionato dall’ WHO – Europe Office per valutare l’utilità dell’ approccio narrativo per comprendere i contesti culturali della comunicazione. L’autrice, Trisha Greenhalgh – suggerisce che per orientare le scelte dei policy makers può essere utile affiancare ai dati epidemiologici un’analisi delle narratives.
Per comunicare ed educare alla salute l’utilizzo delle storie risulta molto più efficace rispetto al comunicare un messaggio attraverso le evidenze scientifiche (“the so-called-facts”, scrive la Greenhalgh).
Il marketing sa bene quanto le storie siano in grado di “modificare i comportamenti e le scelte delle persone”, fin dai tempi delle pubblicità della Barilla con i gattini bagnati, ma anche prima.
Certo che non si può pensare di approcciarsi alle storie in maniera superficiale, ingenua e senza adeguata formazione. A livello istituzionale, per la comunicazione e l’educazione alla salute, utilizzare male lo storytelling, può essere pericoloso e controproducente.
Torniamo ai fatti di cronaca (e di opinione): la campagna del ministero per il Fertility Day. Senza entrare nel merito della faccenda di cui si è ampiamente scritto (dibattuto, contestato, litigato, insultato, sfogato indignazione, ecc) . Sia al primo giro, sia al secondo, ahimè.
Mi rimbalzano in testa le parole del report della Greenhalgh: chi sono i personaggi principali? Quale evento o fenomeno è descritto come il “problema”? Quali opzioni sono presentate per risolverlo e in che modo una è rappresentata come migliore?
The macro-level narratives (discourses) in policy documents can be studied by asking questions such as “who are the key characters?”, “what events and phenomena are depicted as the ‘trouble’?”, “what options are presented for resolving the ‘trouble’ and in what way is one option depicted as better than others?”, thereby identifying the hidden, taken-for-granted assumptions underpinning policy decisions.
Public health projects and programmes can be thought of as nested in grand narratives that can be revealed by looking for metaphors and underlying storylines.
Poteva essere utile farsi queste domande prima del lancio della campagna? In che modo può essere utile rispondere a queste domande ora?
Utilizzare male lo storytelling non significa semplicemente sbagliare la comunicazione. Significa non aver capito proprio che la comunicazione ha a che fare con un punto di vista, prima ancora con i fatti. Qual è il punto di vista che si veicola con queste campagne?
Che poi riportato al livello individuale significa sempre: interrogarsi sul non detto, su ciò che resta fuori, sul nostro framework, sul punto cieco che siamo noi stessi.
E poi però a me scattano le domande etiche: perché il mio framework è migliore del tuo? Perché dovrei mirare a modificare le tue scelte? Mi viene in mente la manipolazione, l’abuso di potere, la violenza dell’ideologia. Ma qui si aprirebbe una parentesi con le potenzialità di un buco nero. Non ora, per favore.
Nella relazione curante-paziente
Se possiamo e dobbiamo occuparci delle macro-narrazioni quando parliamo di comunicazione ed educazione a livello di comunità (online o offline, nei diversi contesti culturali), quando ci troviamo faccia a faccia con il singolo, credo che l’opportunità sia quella di lasciar emergere la narrazione individuale – forse persino “liberarla” -, che pure si collocherà all’interno di una macro-narrazione, ma con elementi di differenza significativi.
Leggendo storie come questa quello che emerge non è tanto lo scontro tra evidence-based e medicine alternative, scienza e pseudoscienza, ma il tema della cura nei suoi aspetti relazionali.
Nonostante i ripetuti esami, ancora nessuno riesce ad arrivare ad una diagnosi utile a fini terapeutici. Viene dimessa e lasciata a se stessa. Le viene consigliato di consultare privatamente un chirurgo toracico per tentare altre biopsie. A Cagliari nessuno risponde. Alleanza terapeutica tra medico e paziente e sostegno psicologico sono praticamente inesistenti. Affrontiamo questo duro momento insieme, con lunghe passeggiate e grande unione familiare.
Un’altra storia, un’altra persona, altre parole prese questa volta da un vecchio post di medbunker , “Perchè ho creduto ad una cura alternativa”:
Ho autoanalizzato il mio comportamento e credo di aver capito che la vera malata ero io. Avevo bisogno di una spalla, di un gruppo di sostegno. Mi servivano certezze e tutte queste cose la medicina non può (ovviamente) dartele. Me le davano quelle persone, il medico, la speranza.
Lo stesso bisogno in una cornice narrativa e valoriale totalmente diversa. Parole gettate (inutilmente?) nel mare di parole di internet.
Fuori dal web. Cosa succede in quella stanza dove due persone si incontrano, una per chiedere cure e l’altra per offrirne? Il medico deve dire al paziente cosa fare? Deve scegliere per lui, in qualità di esperto?
Informare, consigliare e argomentare (e imparare ad argomentare farebbe bene a tutti), questo sì. Ma prima di tutto ascoltare e riconoscere che in quella stanza ci sono 2 persone.
Forse è solo questo che voglio dire con questo post – che diventa così autocontraddittorio nella sua esistenza: ascolta! ascoltati!
Abbiamo (ho) bisogno di più silenzio per imparare a incontrarci.
Un paio di letture
- Greenhalgh T. Cultural contexts of health: the use of narrative research in the health sector. Copenhagen: WHO Regional Office for Europe; 2016 (Health Evidence Network (HEN) synthesis report 49).
- Del Vicario, Bessi, Zollo, Petroni, Scala, Caldarelli, Stanley, Quattrociocchi, The spreading of misinformation online , PNAS 2016
Brava Francesca. Mi piace questa tua riflessione così “contraddittoria”.
C’è bisogno di pensare in questo modo: non dall’alto delle nostre ragioni, ma ponendosi sullo stesso piano di quelle degli altri.
Sull’utilità di scrivere sul web… mi interrogo anch’io. … ma posso dirti che mi fa sempre piacere leggerti.