Ho scritto un lungo sproloquio con riflessioni un po’ spudorate e molto personali su perché scrivo, perché ho la fissa delle storie e perché un pochino tutta ‘sta cosa della narrazione-storytelling mi sta stufando… ma forse anche no.
Lo storytelling ha rotto. Ovvero: basta con le storie, cominciamo a comunicare davvero
Premessa
Ultimamente mi è stato fatto presente (non in questa sede, lo giuro) che i miei post sono un po’ difficili, che trattano temi che interessano poche persone e SEO Yoast continua a classificarmeli come poco leggibili (no, non mi arrenderò a contare il numero di parole per frase!).
Per ovviare a tutti i possibili effetti collaterali di questo post, metto subito qui il foglietto illustrativo, in modo che possiate decidere consapevolmente se “assumere” il resto del post o abbandonare qui la lettura.
La premessa è questa: l’articolo sarà lungo e tratterà di temi difficili. Tanto per capirci, i protagonisti siamo io, che sono una persona difficile, un filosofo inglese difficile, suo figlio che pure è filosofo e forse aveva una relazione difficile con il padre. L’articolo parlerà di storytelling e medicina narrativa. Ma, diciamocelo, lo storytelling può scatenare reazioni allergiche e intolleranze. La medicina narrativa, pure peggio.
Da qui continuate a vostro rischio e pericolo. Dosi moderate non sono previste.
Ok, ora che siamo rimasti in pochi, cominciamo da un episodio che non c’entra nulla.
Quando andavo all’università, un periodo della mia vita piuttosto buio e tormentato, uno degli esami più terrificanti del primo anno era l’esame di “Propedeutica filosofica”, il primo esame di filosofia con approccio teoretico e non storico. Non c’era assolutamente nulla di propedeutico in quell’esame, ti buttavano semplicemente in mare senza salvagente.
Per intenderci, il corso monografico di quell’anno riguardava un filosofo per me sconosciuto di nome Peter Strawson, in particolare un testo dal titolo “Individui. Saggio di metafisica descrittiva”, che era disponibile solo sotto forma di dispensa fotocopiata e passata sottobanco.
Trattava di argomenti che ora mi appassionano, con un’interessante svolta dell’autore dalla filosofia analitica alla metafisica. Ma all’epoca, posso serenamente ammettere di non averci capito nulla. Credo di aver dato l’esame al terzo anno.
Nel corso dell’ultimo anno di lavoro nell’ambito della salute e della medicina narrativa, mi sto sempre più interrogando su questo aspetto della narratività. In particolare: ma non sarà che questa narratività – le illness narratives, ma anche lo storytelling in tutte le sue variegate e colorite salse, brand-storytelling, visual-storytelling, digital-storytelling, food-storytelling, tzatziki-storytelling, guacamole-storytelling… – dicevo, ma non sarà che questo storytelling alla fine è solo una moda, l’ennesima meteora a cui tutti ci attacchiamo sperando che non bruci troppo in fretta perché poi ci ritroviamo senza lavoro e dobbiamo inventarci qualcos’altro?
Qualche settimana fa, stavo ciondolando su internet (potrei più nobilmente decantare questa attività spendendo parole come cyberflaneur, wanderung o serendipity, ma sarò onesta, cazzeggiavo), quando leggo un titolo che subito mi aggancia: I am not a story.
I think it’s false – false that everyone stories themselves, and false that it’s always a good thing. These are not universal human truths – even when we confine our attention to human beings who count as psychologically normal, as I will here. They’re not universal human truths even if they’re true of some people, or even many, or most. The narrativists are, at best, generalising from their own case, in an all-too-human way. At best: I doubt that what they say is an accurate description even of themselves.
Eccolo qua, finalmente, qualcuno che lo dice: no, non siamo tutti narrativi, c’è gente che proprio le storie non le capisce, persone che funzionano in modo diverso, la narratività non è un bisogno universale, non è intrinseca alla natura o alla cultura umana.
Poi lo sguardo mi cade sul nome dell’autore. Per poco non mi viene un colpo: “Strawson”, c’è scritto.
No, non potevo dargli ragione. Anche se, leggendo meglio, mi sono accorta che non si trattava del vecchio Sir Peter, che mi aveva fatto consumare il cervello quando ancora ce l’avevo, ma del figlio, Galen Strawson. Le colpe dei padri, ricadano sui figli. Amen. Galen Strawson, mo’ ti distruggo.
Ho una pagina della mia agenda, fitta di riflessioni utili per litigare con il buon Galen Strawson e smontargli il suo bell’articolo in cui dichiara di non possedere un sé narrativo e quindi di essere l’eccezione che falsifica la regola generale secondo cui tutti abbiamo un’identità narrativa, che il nostro sé è biografico.
La definizione di narrazione che preferisco recita: quando qualcuno racconta a qualcun altro che qualcosa è accaduto. Questa definizione mi piace perché in maniera estremamente semplice tocca tutti gli elementi necessari a ché la narrazione abbia luogo. Ci sono io, ci sono dei fatti accaduti (Aristotele parlerebbe di peripatheia), articolati in una sequenza temporale e “situati” dal mio punto di vista e ci sei tu che ascolti (o leggi) e interpreti in base al tuo punto di vista. C’è sempre una relazione e una performance.
Mettendo questa definizione a confronto con le tesi di Strawson ci si rende conto che nella sua descrizione mancano un sacco di pezzi. Quella che mi colpisce di più è l’assenza dell’altro. Strawson parla di narrazione autobiografica discutendo se è o non è necessaria alla costruzione del sé.
Ora mi permetto di rilanciare: senza la dimensione relazionale non c’è nessuna narrazione.